Dal rapporto di Lev Abalkin (operazione “Mondo morto”)

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Dal rapporto di Lev Abalkin (operazione “Mondo morto”)

Alle dieci l’ordine di movimento viene fissato in modo definitivo. Camminiamo in mezzo alla strada: Ščekn avanti, al centro della strada, a sinistra, dietro di lui, io. Avevamo dovuto abbandonare il solito ordine di marcia — a ridosso dei muri — perché i marciapiedi erano invasi da calcinacci, mattoni rotti, schegge di vetro delle finestre, lamiere arrugginite, e per ben due volte dei pezzi di cornicione, senza una ragione apparente, per poco non ci erano caduti sulla testa.

Il tempo non era cambiato, il cielo come prima era coperto di nuvole. A tratti soffiava un vento caldo che faceva svolazzare sul lastricato sconnesso rifiuti imprecisati, e increspava l’acqua puzzolente nelle pozzanghere nere stagnanti. Si alzavano in volo, si abbassavano e di nuovo si alzavano miriadi di zanzare. Orde di zanzare. Veri e propri turbini di zanzare. Moltissimi ratti. Frusciano fra le immondizie, a branchi color rossiccio sporco corrono per la strada da un portone all’altro, a colonne sbucano fuori dalle cornici vuote delle finestre. Hanno occhi grossi come i grani di una collana che lampeggiano trepidanti. Non si capisce di che cosa si nutrano, in questo deserto di pietra. Forse di serpenti. Anche serpenti ce ne sono molti, specialmente nelle vicinanze dei tombini, dove si radunano e formano degli aggrovigliati cerchi semoventi. Non si capisce anche di cosa si nutrano i serpenti. Forse di ratti. I serpenti, inoltre, sono apatici, niente affatto aggressivi, ma nemmeno timorosi. Si occupano delle loro cose, e non prestano attenzione a niente altro.

La città è stata abbandonata da moltissimo tempo. L’uomo incontrato in periferia era, chiaramente, un folle e si aggirava li per caso.

Comunicazione dal gruppo di Rem Zeltuchin. Finora non ha incontrato nessuno. È entusiasta del suo letamaio e giura che in tempi brevi sarà in grado di determinare l’indice della civiltà locale con un’approssimazione di secondo grado. Cerco di immaginare questo letamaio gigantesco, senza inizio e senza fine, che invade mezzo mondo. Divento di cattivo umore, e smetto di pensarci.

La tuta mimetica non funziona in modo soddisfacente. Il colore difensivo, corrispondente allo sfondo, compare sulla tuta con un ritardo di cinque minuti, a volte non compare affatto, e al suo posto appaiono delle bellissime macchie dagli incredibili colori spettrali. Suppongo che qui, nell’atmosfera, ci sia qualcosa che turba, dal punto di vista dell’autoregolazione, la reazione chimica di questa sostanza. Gli esperti della commissione di tecniche di mimetizzazione hanno perso la speranza di mettere a punto la tuta a distanza e mi danno consigli su cosa fare. Seguo questi consigli, ma il risultato è che la mia tuta ormai non è più regolabile.

Comunicazione dal gruppo di Espada. A quanto pare, durante l’atterraggio nella nebbia, hanno mancato il bersaglio di alcuni chilometri: non hanno visto né i campi coltivati, né i centri abitati individuati quando ancora erano in orbita. Vedono l’oceano e la costa ricoperti per chilometri di una crosta nera, simile a mazut[13] rappreso. Di nuovo divento di cattivo umore.

Gli esperti protestano energicamente contro la decisione di Espada di eliminare del tutto la mimetizzazione. Piccola baruffa rumorosa nell’etere. Ščekn borbotta:

— La famigerata tecnica umana! Ridicolo…

Non porta la tuta e nemmeno il pesante casco con i trasformatori, nonostante fosse stato preparato apposta per lui. Ha rifiutato tutto, come al solito, senza spiegarne il motivo.

Corre per la linea mediana del viale, mezzo cancellata, dondolandosi, buttando leggermente da una parte le zampe posteriori, così come fanno a volte i nostri cani; è grasso, peloso, ha un’enorme testa rotonda, girata sempre verso sinistra, così che con l’occhio destro guarda sempre avanti, e con il sinistro sembra fissarmi. Non presta nessuna attenzione ai serpenti e nemmeno alle zanzare, invece i ratti lo interessano, ma solo da un punto di vista gastronomico. Comunque, ora è sazio.

Mi sembra che lui abbia già tratto delle conclusioni, sia per quanto riguarda la città sia, probabilmente, per quanto riguarda tutto il pianeta. Ha rifiutato con aria indifferente di visitare una villa splendidamente conservata, nel 7° rione, assolutamente fuori posto per pulizia ed eleganza, tra edifici coperti da rampicanti selvatici, corrosi dal tempo, ciechi. Ha fiutato soltanto, con disprezzo, la ruota, dal raggio di due metri, di una macchina militare blindata, che puzzava forte di benzina fresca, mezza sepolta dalle macerie di un muro crollato, e senza alcuna curiosità ha osservato la danza folle di un poveraccio di aborigeno che ci è balzato davanti con un tintinnio di sonagli, e che ballonzolava con addosso degli stracci colorati o dei nastri. Tutte queste stranezze lasciavano Ščekn indifferente. Non desiderava, chissà perché, staccarle dallo sfondo generale della catastrofe, nonostante che all’inizio, nei primi chilometri di cammino, fosse stato chiaramente colpito, avesse cercato qualcosa, infrangendo di continuo l’ordine di movimento, fiutato qua e là, sbuffando e sputacchiando, borbottando qualcosa di incomprensibile nella sua lingua…

— Ecco qualcosa di nuovo, — dico.

Era qualcosa che assomigliava alla cabina di una doccia ionica, un cilindro alto due metri, dal diametro di uno, di un materiale trasparente, simile all’ambra. La porta ovale, alta quanto il cilindro, era spalancata. Verosimilmente, una volta questa cabina era verticale, ma una carica di esplosivo posta sotto un fianco aveva fatto sì che si inclinasse fortemente, e che il fondo si sollevasse insieme all’asfalto su cui era attaccato e alla terra argillosa. Per il resto non aveva subìto danni, anche perché non c’era niente che potesse essere danneggiato: all’interno era vuota come un bicchiere vuoto.

— Un bicchiere, — dice Vanderchuze. — Ma con la porta.

— Una doccia ionica, — dico io. — Ma senza attrezzature. Oppure una cabina di regolazione. Ne ho vista una molto simile su Sarakš, solo che era fatta di ferro e vetro. Fra l’altro nel dialetto locale si chiamano proprio così: “bicchiere”.

— E che funzione hanno? — si informa con curiosità Vanderchuze.

— Regolano il traffico stradale agli incroci, — rispondo.

— Da qui all’incrocio è un po’ lontano, non ti pare? — dice Vanderchuze — Allora si vede che è una doccia ionica.

Gli detta il rapporto. Ascoltato il rapporto, si informa:

— Ci sono domande?

— Due: perché hanno messo qui questo affare e a chi dava fastidio? Prego di fare attenzione: non ci sono né cavi né fili. Ščekn, hai tu delle domande?

Ščekn si dimostra più che indifferente, si gratta, con il sedere girato verso la cabina.

— Il mio popolo non conosce oggetti simili, — mi informa con alterigia. — Al mio popolo non interessa. — E di nuovo continua a grattarsi con aria di sfida.

— È tutto, — dico a Vanderchuze, e Ščekn si alza e prosegue. Al suo popolo dunque non interessa, penso, camminando dietro di lui a sinistra. Mi viene da ridere, ma non si può ridere per nessuna ragione. Ščekn non sopporta nessun genere di sorrisi, la sua acutezza per quanto riguarda il minimo accenno di mimica umana è straordinaria. Strano, come mai i Testoni abbiano questa acutezza? Infatti le loro fisionomie (o i musi?) sono quasi del tutto prive di mimica, almeno per un occhio umano. Un qualsiasi cane da guardia ha una mimica di gran lunga più ricca. E capisce benissimo il senso dei sorrisi umani. In genere i Testoni capiscono gli uomini cento volte meglio che gli uomini i Testoni. E so perché. Noi ci vergogniamo. Loro sono dotati di ragione e noi ci sentiamo in imbarazzo a studiarli. Loro invece non provano imbarazzo. Quando vivevamo da loro nella Fortezza, e loro ci avevano offerto un rifugio, ci davano da mangiare, da bere, ci proteggevano, quante volte mi accorsi che stavano facendo degli esperimenti sudi noi! E Marta si era lamentata della stessa cosa con Komov, e anche Rawlingson, solo Komov non se ne lamentò mai; penso che non lo facesse solo perché è troppo orgoglioso per farlo. Ma Tarasconer alla fine scappò via. Se ne andò a Pandora, dove si occupa dei suoi mostruosi tachorg ed è felice… Perché Ščekn si interessava tanto a Pandora? Accampava ogni scusa, vera e falsa, pur di non partire. Bisognerà controllare se è vero che un gruppo di Testoni abbia chiesto un mezzo di trasporto per trasferirsi su Pandora.

— Ščekn, — gli dico, — vorresti vivere su Pandora?

— No. Devo stare con te.

Deve. Il guaio è che nella loro lingua c’è solo un tempo. Non c’è differenza fra “devo”, “dovrei”, “vorrei”, “potrei”. E quando Ščekn parla in una lingua non sua, utilizza questi concetti a casaccio. Non si può mai sapere che cosa abbia inteso veramente. Forse voleva dire che mi vuole bene, che starebbe male senza di me, che gli piace stare solo con me. Ma può anche essere che stare con me sia solo il suo compito, che gli sia stato ordinato di rimanere con me, e che voglia solo adempiere con onestà al suo dovere, anche se desidererebbe sopra ogni altra cosa infilarsi nella giungla color arancione, cogliendo ogni fruscio, beandosi di ogni profumo, tutte cose che su Pandora abbondano…

Davanti a noi, sulla destra, da un balcone color bianco sporco del terzo piano si stacca un pezzo di intonaco e cade con rumore sul marciapiede. I ratti squittiscono sdegnati. Una colonna di zanzare si alza da un mucchio di immondizie e volteggia nell’aria. Attraverso la strada si è allungato un enorme serpente, come un sottile nastro metallico; si è avvoltolato a spirale intorno a Ščekn e ha sollevato minaccioso la testa romboidale. Ščekn non si è neppure fermato. Agita con noncuranza la zampa anteriore, la testa romboidale vola sul marciapiede, e lui continua per la sua strada, lasciando dietro di sé un corpo aggrovigliato senza testa.

E pensare che avevano paura di lasciarmi andare solo con Ščekn! Un combattente di prima classe, intelligente, con un incredibile senso del pericolo, assolutamente privo di paura, perlomeno non nell’accezione umana… Ma… ovviamente, c’è anche un “ma”. Se occorresse, mi batterei per Ščekn come per me stesso. Ma Ščekn? Non lo so. Certo, su Sarakš si sono battuti per me, hanno combattuto, hanno ucciso e sono stati uccisi per difendermi, ma chissà perché ho avuto sempre l’impressione che combattessero non per me, per un amico, ma per un principio astratto, anche se a loro molto caro… Sono amico di Sèekn da cinque anni, quando ci siamo conosciuti non gli erano ancora cadute le membrane fra le dita, gli ho insegnato la nostra lingua e ad utilizzare la linea di approvvigionamento. Non l’ho mai lasciato quando era ammalato di quelle sue strane malattie di cui i nostri medici non sono riusciti a capir niente. Ho sopportato le sue cattive maniere, le sue espressioni brusche, gli ho perdonato cose che non ho mai perdonato a nessuno. E nonostante questo, non so ancora cosa sono io per lui… Ci richiamano dall’astronave. Vanderchuze informa che Rem Zheltuchin ha trovato nel suo letamaio un fucile. Un’informazione di nessuna importanza. È solo che Vanderchuze non vuole che io me ne stia zitto. È una brava persona, si preoccupa se sto zitto. Parliamo del più e del meno.

Intanto che parliamo, Ščekn si infila nel portone più vicino. Si sente un tramestio, uno squittio, scricchiolii e grufolare. Ščekn appare di nuovo sulla porta. Mastica energicamente e si toglie dal muso le code dei topi.

Tutte le volte che sono occupato con i collegamenti, lui comincia a comportarsi da cane: mangia, si gratta, si mette a darla caccia a qualcosa. Sa perfettamente che è una cosa che non mi piace, e lo fa apposta, come se volesse vendicarsi del fatto che sono distolto dalla nostra solitudine a due.

Si scusa dicendo che era veramente troppo allettante e che non si è potuto trattenere. Io gli rispondo freddamente.

Comincia a cadere una pioggerellina gelida. Il viale davanti a noi è come velato da una foschia ondeggiante. Oltrepassiamo il 17° rione (la traversa è lastricata), passiamo davanti ad un furgone arrugginito con le gomme a terra, davanti a un edificio ben conservato, rivestito di granito, con grate arabescate alle finestre del primo piano; alla nostra sinistra comincia un parco, separato dal viale da un basso muretto.

Nel momento in cui ci troviamo a passare davanti allo sbilenco arco del cancello di ingresso, dai cespugli bagnati, ormai inselvatichiti, accompagnato da un gran rumore e da un suono di campanelli, salta sul muretto un uomo grottesco, lungo lungo e tutto colorato.

È magro come uno scheletro, ha le guance cascanti e gli occhi vitrei. Foglioline bagnate di cerfoglio gli spuntano da tutte le parti, traballano le braccia indebolite e disarticolate; le gambe nude invece si contorcono di continuo e saltellano sul posto, tanto che da sotto gli enormi gradini svolazzano da ogni parte foglie cadute e briciole di cemento bagnato.

Indossa, dalla testa ai piedi, una specie di tuta di maglia di vari colori — rosso, giallo, blu e verde — e i campanelli che porta cuciti qua e là sulle maniche e sui pantaloni suonano in continuazione mentre le dita affusolate schioccano forte e ripetutamente secondo un ritmo scoordinato. Un pagliaccio. Un Arlecchino. I suoi gesti sarebbero buffi, se non fossero così terrificanti: in quella città morta, sotto una pioggia grigia, sullo sfondo di un parco solitario, diventato ormai un bosco. Si tratta, senza dubbio, di un pazzo. Ancora un pazzo.

In un primo momento mi era sembrato lo stesso che avevamo incontrato in periferia. Ma quello aveva dei nastri colorati e uno stupido cappello a punta con la campanella in cima, era molto più basso, e non sembrava così macilento. Semplicemente erano tutti e due variopinti e tutti e due pazzi, e sembrava incredibile che i primi due indigeni incontrati su questo pianeta fossero dei clown impazziti.

— Non è pericoloso, — dice Ščekn.

— Dobbiamo aiutarlo, — rispondo.

— Come vuoi. Ci darà fastidio.

Lo so pure io che ci darà fastidio, ma non si può farci nulla, e comincio ad avvicinarmi al pagliaccio in lacrime, preparando nel guanto la ventosa con il tranquillante.

— Pericolo alle spalle! — grida Ščekn.

Mi giro di scatto, ma in quella parte della strada non c’è niente di particolare: una villetta a due piani con resti di vernice di un sinistro color viola, colonne false, nemmeno un vetro intero, l’arco di una porta al secondo piano è spalancato nelle tenebre. Una casa è solo una casa, tuttavia Ščekn la guarda fisso, la punta con un’attenzione carica di tensione. Si accoccola sulle zampe, pronto a scattare, abbassa la testa e drizza le piccole orecchie triangolari. Sento dei brividi alla schiena: dall’inizio della marcia non avevo ancora visto Ščekn in questa posizione. Dietro di noi risuonano lamentosi i campanelli, poi all’improvviso si fa silenzio. Si sente solo il fruscio della pioggia.

— In quale finestra? — chiedo.
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